L’inviato del futuro, un “sismologo” dei mutamenti globali

Posted on 15 aprile 2011

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L inviato del Tg5 Mimosa Martini

I corrispondenti dall’ estero come dinosauri in via d’estinzione. Ma nel mondo sempre più gente domanda di conoscere cosa succede realmente nei posti dove si combatte. Richard Sambrook, ex capo degli inviati di BBC Global News, riconosce che negli ultimi vent’anni, e in maniera esponenziale dalla nascita dei social media cinque anni fa, il ruolo del corrispondente è minacciato dalla riduzione dei costi delle testate e dagli organismi locali che autoproducono informazione. “Dovremmo avere lo stesso ruolo che viene affidato ai sismologi. Essere presenti sul posto per saper prevedere gli sconvolgimenti. Tutti, a partire dai servizi segreti dei grandi stati occidentali, sono stati sorpresi dalle rivolte mediorientali”.

Mort Rosenblum, per anni inviato di punta dell’ Associated Press, racconta di come sia divenuta impopolare l’immagine dell’ America, dopo le guerre in Afghanistan ed Iraq che puntavano a sdradicare il terrorismo. “Oggi viaggiare con un passaporto americano è più rischioso che negli anni Settanta. Si sono spesi 4 triliardi di dollari per queste guerre inutili. Se avessimo speso anche un solo milione di dollari pagando corrispondenti dall’ Iraq, ci avrebbero potuto dire in anticipo che questa guerra era sbagliata, salvando così la vita a migliaia di vittime irachene. Invece, con i continui tagli alle spese degli inviati dall’ estero, abbiamo dato retta ai cosiddetti ‘esperti’ che ci hanno trascinato in questo pantano”.

Sambrook avverte che oggi si è allargato moltissimo il divario tra un’ informazione ‘all news’ prodotta in quantità ma in maniera superficiale, e strati di popolazione che per cultura e ricchezza riescono ad accedere a fonti d’informazione che fanno approfondimento specialistico a pagamento. La maggior parte dei produttori di questi contenuti sono giornalisti freelance che si guadagnano da vivere in questo modo sfuggendo al sistematico ripiego degli inviati dal campo alla scrivania. “Penso che nel futuro il corrispondente estero si trasformerà da ‘cacciatore di notizie’, bianco, maschio e di mezza età, ad ‘agricoltore’ nei paesi dove opera. Cioè, non basta recarsi sul posto in seguito alla notizia, bisogna saperla riconoscere mentre è ancora incompiuta”.

Singolare l’ esperienza di Andy Carvin, acarvin su Twitter, che ‘cinguetta’ in rete dai 20 ai 30 messaggi al giorno da fonti libiche selezionate. Dal suo pc, attraverso un lavoro di ‘triage’ e verifica delle fonti, è riuscito a scoprire che un video dove si vedeva un missile con il simbolo d’ Israele era in realtà un messaggio di propaganda.
Mimosa Martini, inviata del Tg5, lancia il suo allarme: “Sono pessimista, perchè vedo che in particolare in Italia si sta andando nella direzione di un’informazione prodotta al costo minore, a scapito della qualità. Oggi siamo troppo concentrati sul nostro ombelico, ma quando questa fase cupa passerà riscopriremo che il mondo è totalmente interconnesso. Quando ho lavorato in Albania, non mi aspettavo che i leader locali mi chiamassero per essere intervistati da me, ma successe perché vedono la nostra televisione”. Per i giovani cronisti è sempre più difficile avere una chance di trovarsi nei posti ‘caldi’ del mondo. “Faccio il lavoro che mi è sempre piaciuto e do la vita per questo. Ho cominciato a 16 anni girando il mondo in sacco a pelo, ora mi ritrovo a fare l’ inviato in posti che avevo visto da giovane sognatrice”. Un mestiere rischioso, come quando, durante le manifestazioni di protesta dell’ ‘Onda verde’ a Teheran, il cameraman locale spegne la registrazione. “Ma cosa fai?- gli ho urlato -Io sono andata su tutte le furie con lui, ma cosa poteva farci? Rischiava la sua vita, mentre al massimo io sarei stata cacciata dal Paese dopo qualche giorno di carcere”

Durante la protesta in Egitto, Mimosa Martini era alloggiata con altri corrispondenti da tutto il mondo all’ hotel Hilton del Cairo: “Gli stessi dipendenti dell’ albergo entravano nelle stanze dei giornalisti per sequestrare qualsiasi supporto d’informazione. Prima di entrare in Egitto, ho comprato una handycam in Kuwait. L’ho nascosta sotto la mia giacca e solo con quella sono riuscita a filmare quello che succedeva a piazza Tahrir, tra i ‘bravo’ della folla. Se però ti spostavi in periferia e qualcuno ti trovava una telecamera addosso venivi picchiata selvaggiamente”. Però succede anche di parlare con i manifestanti che giubilano per la cacciata di Mubarak e di sentire questa barzelletta: “Mubarak va in cielo e ritrova Nasser e Sadat. Mi hanno avvelenato, confida Nasser, Sadat è morto sparato, e tu Hosni come sei finito? Facebook” risponde l’ ex rais.

di Antonio Ricucci

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